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La prima notte di libertà
traduzione di Maria Baiocchi
Cristovão Tezza
La vecchia mi portò su in soffitta; l'eccessiva gentilezza
dimostrava che mi si voleva ingannare. Mi lasciai condurre, docile;
con la mano sulla mia spalla mi accompagnava balbettando frasi
consolatorie. Non osai fare domande. Comunque mi avrebbero raccontato
balle. Fingendo di credere al gioco, mi ripromettevo di scoprire
tutto per conto mio. Dietro di noi veniva il vecchio, con un sorriso
falso. In soffitta la vecchia mi mostrò il letto, rifatto,
con le lenzuola e un immacolato pigiamino a fiori. Una volta pronto,
avrei potuto spegnere la luce; l'interruttore era lì a
lato.
- Hai paura del buio?
- No, signora.
Lei mi passò la mano sulla testa, spettinata e carina,
ed uscì chiudendo la porta. Sentii passi sulla scala, strascichìo
di ciabatte, sussurri: i vecchi cospiravano. Mi coricai senza
spegnere la luce e senza togliermi i vestiti. Rimasi a guardare
la lampada appesa al soffitto, con le tegole in vista, le carcasse
dei mobili antichi e le cassapanche impolverate. E quel letto,
candido, fra tutto quel vecchiume, solo per me. Non ne capivo
il senso: cosa poteva aver spinto i vecchi (miei nemici per via
di tutti i vetri rotti durante le guerre con la fionda) a venirmi
a prendere fin sulla porta di casa e, al prezzo di alcune pasticche
di menta, di una minestra di avena e di frittelle salate, trascinarmi
in soffitta? Era talmente incomprensibile che non avrei perso
tempo a cercare di spiegarmelo. Quando avevano cercato di attirarmi,
davanti alla porta di casa, mio fratello maggiore mi guardava
di sottecchi e faceva finta di non dargli importanza. Doveva sapere
tutto. Ebbi l'impressione che la donna con il naso schiacciato
sul vetro della finestra della camera di mio padre fosse mia madre
e che mi stesse guardando anche lei. Forse. La casa era buia e
piena di gente. Stetti al gioco e mi lasciai portare via dai vicini;
dovunque passassi la gente mi guardava con aria discreta e rispettosa,
come un principe spodestato. La cosa mi piacque - per alcuni minuti
ero al centro dell'attenzione - e mi misi a masticare le pasticche
di menta, facendo rumore con la bocca e sputacchiando saliva per
irritarli, ma ero immunizzato da un rispetto soprannaturale. Dopo
mi spaventai, presentendo la fragilità della mia posizione:
era falsa. Alla fine avrei perso io.
Ora stavo in soffitta. Con gli occhi bene aperti: non volevo dormire
senza aver svelato il mistero. Poiché non mi avevano detto
niente ero io a darmi le regole. Avrei aspettato che i vecchi
si addormentassero e poi sarei sceso giù per la scala e
sarei tornato a casa. La luce della lampada negli occhi, sentii
che stavo per piangere e piansi, piano, per paura di svegliare
i vecchi. Più calmo - silenzio assoluto, il mondo immobile
mi aspettava - e convinto del mio diritto di fare quello che volevo
fino a che non fosse tornato l'Ordine, scesi giù per la
scala, aprii la porta di casa e saltai oltre il muretto del cortile.
La casa che fino a quel momento era stata la mia era piena di
gente, vicino alle vetrate, alle porte, alle finestre del secondo
piano, e nessuno se ne andava o si muoveva molto, tutt'al più
allargavano le braccia e bisbigliavano, mormoravano, ombre quasi
indistinte nella poca luce. Ebbi paura. Pensai ai fantasmi, al
cielo e all'inferno, ai preti. Dicevano: se non mangi tutto viene
la strega oppure ti prende la polizia. Era la Morte (uno scheletro
sotto un lenzuolo) che stava là dentro casa. Le cose cominciavano
a chiarirsi: forse il mondo era finito. La paura aumentò
e decisi di allontanarmi: se mi avessero preso di nuovo mi avrebbero
riportato in soffitta, senza tante storie.
Sul retro della casa, dietro il gallinaio, sentii uno schiamazzare
stridulo di galline. Corsi là al buio. Figuri indistinti,
ladri di galline. Con una vaga indignazione - perché proprio
quella notte? - mi avvicinai per cacciarli via, ma a pochi metri
la paura mi paralizzò: l'Ordine era rovesciato.
Qualcuno bisbigliò:
- Il figlio del vecchio!
Una grande ombra minacciò di tirarmi una pietra; un'altra,
più piccola, rideva. Non c'era logica in quella storia.
Corsi via per nascondermi dietro il melo, seguito dalle risate
e dallo starnazzare delle galline. Poi tornò il silenzio
e il cortile vuoto. Dovevo trovare mio padre e riferirgli quello
che stava succedendo (cosa che mi diede un'improvvisa sensazione
di importanza per la gravità del fatto) - ma se mi avessero
visto in casa mi avrebbero rispedito in soffitta. Pensai alla
mia stanza, forse invasa da una folla di figuri. Repressi la voglia
di piangere e me ne stetti zitto, senza pensare a niente. Improvvisamente:
- Pss...
E una risatina. Mi prendevano in giro. Una piccola ombra si mosse
tra il fogliame e si mise a correre. Silenzio. Poi il richiamo,
da un'altra parte.
- Psss...
Pensai ai fantasmi, ma la paura cominciava a svanire. Ancora risatine,
infantili. Risi anch'io, incerto.
- Chi è?
Andai dietro un altro albero e decisi di nascondermi a mia volta.
Nessun rumore. Mi sembrò di vedere qualcosa davanti a me:
sì, una bambina. Corsi in quella direzione: non c'era niente.
All'improvviso due mani sugli occhi:
- Sono io, scemo! Indovina!
- Ana?!
Ci mettemmo seduti nell'erba. Era la vicina di fronte, aveva la
mia età. Con aria misteriosa mi si avvicinò, con
le mani a imbuto sull'orecchio; forse era un segreto. Bisbigliò.
- Mi lasci fare una cosa?
- Sì.
Mi respirò profondamente nell'orecchio e poi ci passò
la lingua lentamente e io rabbrividii. Ridemmo.
- Ora tocca a te.
Ubbidii. Lei fece una smorfia e scosse la testa. Cose vagamente
proibite, ma neppure quello ci divertiva.
- Che fai qui?
- Niente. Sono venuta a giocare. Non c'è nessuno a casa,
sono tutti lì alla festa.
- E' già notte, se ci scoprono...
- Macché - e fece un verso di sufficienza. - Non me ne
importa!
Restammo in silenzio per un po'.
Ripresi il discorso, nel timore che se ne andasse.
- Ma che è successo a casa, che è tutto pieno di
gente?
- Non lo so, forse è morto tuo padre. Era quello che dicevano.
- Ah.
Io guardavo il tetto della casa.
- Mio padre?
- Credo di sì, ma non sono sicura.
Cercavo di ricordarmi: il giorno in cui era morta la nonna la
mia madrina mi aveva regalato le meringhe dolci. Prima di andare
a dormire avevo bevuto parecchi bicchieri d'acqua. Era come se
non fosse successo niente:
- Forse c'è anche mio padre. Andiamo a vedere?
Lei si animò.
- Io entro dalla porta principale e tu da quella sul retro! Chi
trova l'altro per primo vince!
Mi stava bene. Lei se ne andò di corsa e scomparve. Rimasi
solo. Mi stavano nascondendo mio padre, era per quello che mi
avevano portato in soffitta e mi avevano dato le pasticche di
menta. C'era una certa logica. Momentaneamente tranquillizzato
corsi fino al retro ed entrai in casa per la cucina. C'era una
folla di gente che parlava sottovoce. Schiacciato contro la parete,
procedevo a testa bassa; in qualsiasi momento avrebbero potuto
acchiapparmi e riportarmi in soffitta. Sentii una voce:
- Quel bambino non è il figlio?
Ma io mi eclissai. Cercai di concentrarmi sul gioco, di trovare
Annina. Non era nel salone. Solo un mucchio di gambe e una gran
confusione nelle orecchie. Corsi fino alla porta della stanza
di mio padre, come sospinto da un'idea. Seduta sul letto, mia
madre piangeva, circondata di vecchie premurose e di tazzine di
caffè. La cosa mi agitò, avevo voglia di piangere
anch'io. Era la Morte, il mondo era finito, gli uomini erano vestiti
di nero, c'erano le streghe, mia madre era stata presa. Anche
lì non trovai mio padre. Feci due passi indietro, intravidi
Annina nella sala grande e mi distrassi col progetto di acchiapparla.
Bastava che mi nascondessi sotto il tavolo dove c'era un cassone
con merletti d'oro e d'argento, candele, candelabri, facce compunte.
Arrivai fino lì, sorpreso dalla mia libertà: gli
adulti mi evitavano, mi facevano largo con uno strano rispetto.
Sotto la tavola un caldo soffocante e quell'odore nauseabondo
delle candele bruciate. Mi si annebbiarono gli occhi.
- T'ho preso!
- Psss!...
Lì non era permesso gridare, o ci avrebbero buttato fuori.
Annina si coprì la bocca con tutte e due le mani, nascondendo
una risata scandalosa. E sussurrò tra le dita, vittoriosa:
- Ti ho preso un'altra volta!
Mi sentii truffato: c'era molta confusione e così non si
poteva giocare bene. Cambiai discorso:
- Hai visto mio padre?
Lei fece segno di no. Poi agitò il braccio con una smorfia:
- Qui è pieno di fumo. Andiamo via.
Uscimmo. Lei voleva continuare a giocare, ma a me era passata
la voglia.
- Andiamo in strada, Annina. Mio padre dovrebbe arrivare presto.
- Cercai di spronarla col nuovo gioco: - Andiamo ad aspettarlo?
Era d'accordo. Scendemmo giù per la strada con una sensazione
diversa. Sapevamo che quello non era un gioco. Qualcuno camminava
nell'ombra:
- Non è lui?
Io aspettavo a rispondere, fingendo di non essere sicuro.
- No, non è. - Avevo paura che lei si scoraggiasse: - Ma
presto lo incontreremo!
Proseguimmo in silenzio. A un certo punto (io già speravo),
Annina mi strinse un braccio:
- Io torno a casa. E' sera. Penso che tuo padre non viene. - Non
mi voleva ferire: - Domani giochiamo ancora.
Mi misi seduto sul marciapiede, un po' confuso.
- Va bene, Annina.
Lei se ne andò. Io non avevo fretta, fino a che non avessi
incontrato mio padre ero libero. Potevo fare quello che volevo.
Dopo essermi aggirato un po' per le strade cominciai a piangere.
Quando rientrai in casa c'era poca gente e il salone era buio.
Spinsi una sedia fino alla tavola, ci salii sopra e scoprii mio
padre sdraiato con le mani incrociate sul petto. Allungai la mano
per toccarlo, ma non lo toccai. Appoggiato sul bordo della cassa
guardavo mio padre, che non si muoveva, non respirava, non guardava
niente. Qualcuno mi tirò via da lì, ma non mi portò
in soffitta; mi baciò sulla testa e mi lasciò. Restammo
io e la Morte.
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