Penelope
(traduzione di Maria Baiocchi)

Cristovão Tezza


Sono sempre stato un disegnatore senza ambizioni. Inosservato nel mio studiolo disegnavo lettere, bottiglie, automobili. Rientrato nel mio appartamento aprivo scatolette e mi scaldavo la cena. Continuo così.

Ho trovato la solitudine attraverso tre donne. Solo con la prima c'era passione. Con le altre uno scetticismo pratico. Ma anche su quello mi illudevo: cinema, gioco, spiaggia, viaggi di fine settimana, tutto perduto. Alla fine (neppure tanto: quaranta anni), mi ritrovo in preda a una stanchezza rassegnata, fisso la parete bianca, con le ali storte che sbattono nel silenzio. Ma la capacità di stare solo ha alimentato la mia superbia: la sensazione di libertà, l'illusione della scelta.

Mi misi a disegnare anche di notte, per conto mio. Forme: strade, case, uomini, donne. Quel che sembrava una fuga - nei miei disegni mi sentivo a casa - si trasformò in piacere. Il pannello dell'apparenza si organizzava sotto il mio segno. Nelle mie strade ero io a fare la Storia. Attaccavo i fogli alla parete con le puntine da disegno e mi proteggevo in questo mondo inventato che si andava dispiegando, un foglio dopo l'altro. Volti alle finestre, folle per le strade, appartamenti vuoti, qualcuno perso in un vicolo cieco. Una strada, un quartiere, una città intera simile alla mia si ramificava in vicini, cugini, madri, orfani, alberi, risate e cazzotti Una donna che andava di fretta, un volto improvviso che si volta nel vento della sera, mi attrasse. Si chiamava Penelope, un nome al tempo stesso classico e falso. Persi molte ore a fissarla, era solo un volto, ma sembrava finita.

Cercai di dimenticarla, ma ad ogni nuovo disegno tornavo alla mia Penelope appesa alla parete, imperfetta e finita, per sempre completa, come un sole morto. La sensazione di conoscere qualcuno che non conosciamo. Da dove? Da nessuna parte. Forse... e cominciavo un altro foglio bianco, proseguendo la mappa in un'altra direzione. Ma per poco, appena mi distraevo, i miei occhi tornavano a lei, impauriti - se avessi guardato troppo Penelope improvvisamente avrebbe rivelato il giallo del tempo, il trucco del segno, l'invenzione della carta.

Dovevo affrontarla. La isolai dalla moltitudine e me la misi di fronte. Com'era incompleta! Eppure... Decisi, presuntuoso, di darle tutti i tratti del mio realismo. E così, ubriaco di un'idea, avevo cominciato a impilare Penelopi in bianco e nero, a cominciare dal volto. Sempre con la sensazione di qualcuno noto, un'ombra, un segnale, un'inesistente cugina dell'infanzia, una commessa del supermercato, corpi che si scontrano in piazza Figueira (un volgersi della faccia interrogativa), un sospiro aspettando l'autobus che non arriva, mani che si sfiorano all'edicola sullo stesso giornale, ma quando? Mi confondevo - no, questi occhi non sono i suoi - strappavo il foglio e ricominciavo, tornando sempre al primo schizzo, a quello vero. Un cieco che tasta una statua.

Alla fine - un sigaro saporito fra le labbra, inalando profondamente - dominai il suo volto, ogni linea, ogni nuance. Con che piacere guardavo il soffitto! Dispiegai Penelope, sempre più docile. Di fronte. Che mi guardava. Lontana. Col capo eretto. Mentre si levava le scarpe. O si lavava i denti. Silenziosa. Triste. Allegra. Con i capelli lunghi - lunghi, neri e spessi. Poi le tagliai i capelli. La feci piangere. Dormire. Pensare. Uno accanto all'altro, paragonavo i disegni. Lei stessa si confrontava allo specchio: era proprio la stessa donna.

E come ridevo, felice della vita! L'ansia di tornare dal lavoro - dove adesso disegnavo i cartelloni cinematografici - l'oppressione della vita inutile della settimana, Lo sterminatore del passato, La vedova allegretta, Lungo tetto dentro la notte, Hula hoop III, L'incredibile uomo che dimenticava, la voglia disperata di consacrarmi a Penelope, di denudarla, di vederla nell'intimità del bagno, di aprire lo sportello del suo armadio e appendervi tutto quello che desiderava. Disegnai quattro diamanti nel cassetto del suo comodino.

Braccia, gambe, seni, curve. Com'era esattamente Penelope? Ai primi tentativi si rattristò, perché stavo mentendo, ingannato dagli schemi degli altri. Fino a che, senza scampo - non andai neppure a lavorare quella sera - scoprii il corpo che corrispondeva esattamente al suo volto. Un corpo, un'altezza, un peso. Le braccia mi sembravano sproporzionate; nel rifarle tornavano sempre le stesse - braccia, mani, unghie. Intera e pudica. Nuda, chiudeva gli occhi, coprendo con la mano la piccola macchia sulla gamba, una bruciatura dell'infanzia? Un'altra pagina, con l'espressione a un tempo intima e distante. Da dove veniva questa donna tanto familiare?

Coprii i miei spazi di Penelope. Per ore e ore a contemplare qualcuno che mi creava. Così completa! Ma non ero capace di svelarla. La disegnai mentre mi si offriva - quasi implorando che mi tuffassi in quell'acquario del nulla - sempre protetta da una campana di vetro. La lasciai in pace, immobile sulle mie pareti. Aprivo una lattina di birra e passeggiavo tra i miei disegni, con la falsa indifferenza di chi già ha desistito. Mesi dopo, ubriaco, cercai di ridisegnarla e fallii. Ebbi paura. Identica a se stessa, Penelope sorrideva trionfante. Anch'io, risentito e più vecchio.

L'onnipresenza delle mie pareti si trasformò in un'ombra delle strade. Sentivo che mi controllavano. Nell'autobus, in piazza, nelle curve della Trinità, l'ombra di Penelope mi accompagnava, come dipendente, come divertita, come senza scampo. Una prossimità inquieta: da qualunque luogo, in qualsiasi momento, qualcuno mi avrebbe afferrato la mano in un incontro spaventoso e inevitabile. Dove sarà Penelope? Un po' per vendetta, un po' per desiderio, nel mio nuovo lavoro, prestai il suo volto alla pubblicità stradale di uno sciampo da farmacia, sul lungomare. Era così diversa in quel modo, così colorata!

Uno strano sabato, passai tutto il giorno al Pantano do Sul, a bere da solo. Aspettavo l'autobus delle cinque. Qualcuno mi chiamò per liberare la macchina insabbiata:

- Penelope?

Lei non disse né sì, né no, ma m'indicò la gomma nella sabbia. Credevo che avesse paura e invece no: era solo distante, mi chiese se andavo in città. Feci cenno di sì col sole in faccia. Lei accelerò e io spinsi, la macchina si liberò facilmente ma mi riempì di sabbia. Lei mi aprì lo sportello e io salii, incerto. Per dieci minuti parlammo di banalità: i sedili sporchi di sabbia, il vento, il caldo, la cintura di sicurezza che non funziona. E poi intervalli agonizzanti di silenzio, lungo la strada che lei conosceva. Io controllavo il suo profilo: identica. Alla Trinidade, Penelope fermò la macchina e spense il motore. Mi guardò, molto seria. Come distaccandosi dalla pagina bianca, nella precisione del mio segno. Frivolo e cavaliere, aprii la porta per lei e la presi per mano: una mano ferma e calda. Penelope mi piacque così, in silenzio: la paura tremenda che la voce alta diminuisse la mia opera.
Entrammo nell'appartamento e lei andò dritta ai miei disegni. Nessuno stupore, solo un sorriso accennato:

- Quella sono io?

Non le risposi, né lei si Aspettavo una risposta. Camminò lungo le pareti guardandosi, così perfettamente immobile.

- Mi controllavi.

- Tu mi controllavi.

Alla fine rise, prevedibilmente inclinando il capo e passandosi la mano tra i capelli, proprio come nel mio disegno. Poi una vertigine di silenzio, così pesante che non usciva dalla stanza. Attraversare quel terrore, la parola: l'interminabile tortura dei dettagli, la professione, il taglio dei vestiti, le rate, il latte nel frigorifero, il resto al cinema, i ricordi, l'accumulo spropositato delle cose da fare, ognuna delle quali ci strappa un pezzo. Insistei nel silenzio: ogni parola ci diminuisce - il terrore di guardarla e scoprire un errore. Che orrore è questo che minaccia la mia solitudine?

Nei mesi che seguirono - chissà dove viveva Penelope, chissà quale spazio occupava nel mondo!- non pronunciai mai il suo nome. Per paura che evidenziasse l'inganno o il disastro. Ma no: stava là, con la piccola macchia sulla gamba, che spostava con la leggerezza di una punta di penna, nuda nel nostro desiderio. Un'ansia corrosiva di scoprirla sempre di più, ma in lei tutto era già disegnato, pagina dopo pagina. Amai Penelope con disperazione, presentendo la fine.

Poi, cominciò lentamente la morte di Penelope. Settimana dopo settimana lei perdeva colore, fermezza, voce. Perdeva leggerezza, eleganza, lucentezza dello sguardo, una pagina bianca invasa dall'ombra. Una sera la mia mano attraversò il suo braccio, come un vento. Metà del viso stava svanendo, una luna senza direzione. Vidi Penelope soffrire: le sue ultime frasi, sconnesse, imploravano qualcosa che sembrava la salvezza. Tre giorni fa mi sono svegliato definitivamente senza Penelope, con tutte le pareti bianche. Ieri, dalla finestra della mia stanza ho visto i vigili che portavano via la sua macchina, abbandonata nella strada stretta.


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