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Revista Linea d'Ombra
luglio/agosto
1997 numero 127
(brano
tratto dal romanzo Trapo)
Traduzione di Maria Baiocchi
IL GALLO
Cristovão Tezza
Il ricordo più antico della mia vita risale ai miei quattro
o cinque anni. E' un gallo. Un gallo bianco, dalla cresta sanguinolenta
e mezza cadente, come di chi torni dalla guerra. Aveva occhi bellissimi
quel gallo della mia infanzia, vuoti e annacquati e perennemente
infuriati.
Il gallo mi affascinava. Passavo ore nel cortile di casa a guardare
il mio gallo. Non so più cosa pensa un bambino di cinque
anni o come pensa. Non so neppure cosa potesse significare un
gallo per un bambino innocente - ammesso che una cosa del genere
esista. Ma non posso dimenticarmi la mia passione. Un'ammirazione
legittima per la sua grandezza, senza nessuna traccia d'invidia
- solo ammirazione. Io guardavo il gallo e il gallo, di tanto
in tanto, guardava me, furente. Ho un vago ricordo del fatto che,
se all'inizio mi era apertamente ostile, col tempo, minacciando
di uscire dalla rete metallica con degli attacchi isterici di
odio, finì per accettarmi. Conservava la rabbia, ma come
riconoscendo in me solo un nemico inoffensivo. Nel frattempo -
e credo che fosse quella la cosa che più mi impressionava
- non allentava mai la guardia del suo odio. Se decidevo di buttargli
qualche chicco di granoturco, come in una corte discreta, una proposta
di pace, prima di attaccare il granoturco, marciava contro di me,
assoluto, arrogante, con un orgoglio immenso quanto stupido. Solo
con la mia capitolazione, con la mia ritirata - io morivo di paura
del gallo che amavo - solo allora avanzava verso il granoturco
e le galline che avevano is coraggio di avvicinarglisi.
Insomma: un re.
E il canto, il canto indimenticabile di quel gallo stupido e sovrano
nella sua imbecillità autosufficiente! Il canto mi affascinava.
Lui saliva nei suoi rifugi sporchi di merda, in quelli più
alti, arruffava le ali bianche in un furore da megalomane, si
guardava alle spalle, col collo si allungava al limite delle ossa,
dei muscoli e delle penne, ridicolo, grandioso e sparava quel
suo prolungato canto in falsetto, com la pappagorgia che gli si
riempiva di vento e tutto arruffato, nell'emozione vera della
sua grandezza! Tutto il sangue del gallo, tutta la sua anima ribolliva
nella gola e nella testa, con la cresta ancora più rossa,
in un rubor crescente. E, dopo il nunero, gli occhi si facevano
ancora più furiosi, scrutando alle spalle, cercando di
indovinare, nelle circonvoluzioni minuscole del suo cervello,
il più lieve accenno di ironia contro il suo spettacolo.
E se fosse arrivato col suo grossolano meccanismo mentale alla
conclusione che ridevano di lui, che il suo canto non provocava
altro che lo Scherno del mondo? Sicuramente sarebbe morto, inerme
contro il nemico: sarebbe morto nell'esplosione del suo odio,
per incapacità dell'anima di rimanere costretta in quel
piccolo corpo. Alla fine del canto, dopo aver rivolto lo sguardo
qua e là, con improvvise frecciate, velenose, con
la cresta tremula, mi fissava, pieno d'odio, per uno o due secondi.
E guai a me se non avessi amato il suo canto! Ma nei miei occhi
trovava soltanto devozione.
Ero affascinato anche dalla dignità stupenda delle sue
gambe rinsecchite, un vecchissimo stivale perfettamente incollato
ad ogni nervo. E le grinfie, le unghie, gli artigli, sempre con
l'ansia di reggere la terra intera sotto le zampe, di non lasciarla
cadere! Immaginavo (immagino ora) che quell'odio non fosse altro
che lo sconforto senza soluzione di tanta grandezza condannata
per sempre alle pene di un volune ridicolo, di un formato stravagante,
disarmonico, di una figura impagliata da circo. Il gallo lo sapeva:
ora ne sono certo.
Non so quanto durò la mia passione. M'è rimasta
un'immagine: io da questo lato della rete, incantato. Forse già
traspariva nella mia faccia la tristezza dell'ingratitudine, forse
mi ostinavo a visitare il gallo solo nella speranza che un giorno
sarei riuscito ad addolcire quella malvagità, a strappare
quella maschera, scoprire sotto le penne un bambino spaventato,
come me. Era una proposta di amicizia che poteva aspettare. Ma
la mia dipendenza spirituale da quel titano dalla cresta caduta
stava diventando così forte che la famiglia prese provvedimenti.
Mentre io amavo il mio gallo loro tramavano. Bisognava salvarmi
dai perfidi artigli di quel gallo che neppure ricambiava il mio
amore.
Tramavano una cospirazione magnifica, e quando vidi mio padre
stagliarsi sulla porta della cucina e marciare nel cortile fino
al gallinaio, davanti al quale io stavo in adorazione del gallo,
capii immediatamente che nei suoi gesti, nei suoi sorrisi e nelle
sue parole, nel suo passo cadenzato si nascondeva la premeditata
orchestrazione di un preciso rituale. Dall'attrazione per il gallo
passai a quella per mio padre, ancora prima di poter collegare
una cosa (il gallo) all'altra (il padre). "Vai nel gallinaio?".
Rise ed entrò. Io infilai le dita nelle maglie della rete
e vidi quello che dev'essere stato il più grande spettacolo
della mia vita, la lotta magistrale di due eroi, il gallo e mio
padre, in mezzo a una carneficina di galline terrorizzate. Fino
a quel momento ero stato completamente assorbito dalla grandezza
stessa della lotta, senza pensare - guardavo soltanto. Il gallo
fece un graffio spaventoso a mio padre e in fondo al mio stupore
c'era un'ammirazione per quella furia scatenata e grandiosa, a
difesa della sua dignità. Alla fine, quando mio padre finalmente
riuscì ad agguantare il gallo per il collo, con le mano
insanguinate e la camicia a brandelli (e il gallo ancora si agitava
furiosamente, sull'orlo della morte) guardai l'uomo: aveva negli
occhi esattamente lo stesso odio del gallo, ma meno grandezza.
Un odio stupido quanto quello del gallo, ma senza le giustificazioni
di quello, o almeno non me ne rendevo conto.
Ammutolii. Mio padre scosse il gallo con rabbia - "eccolo
qua questo maledetto figlio di puttana" ed uscì dal
gallinaio. Lo seguii, scoprendo che al di là del rituale
c'era una cospirazione punitiva, la cui vittima, più che
il gallo, ero io. Non me lo dimentico: "Ora ti insegno come
si ammazza un gallo senza sprecare il sangue". Non pensai
al sanguinaccio ma a qualcosa di vertignoso che i mie cinque
anni non erano in grado di localizzare.
Entrammo nel pollaio, mio padre avanti, col gallo, che di tanto
di tanto era scosso da sussulti soffocati dalle dita di ferro,
e io stavo dietro, e lo vedevo morire. Non piansi neppure. Mio
padre strappò le penne dal collo del gallo, così,
a secco, lo mise sopra un un tronco mozzo e con mano da maestro
- io non staccavo gli occhi - gli mise un coltello nella vena,e
il sangue spillò dentro una bacinella smaltata.
Il gallo morì lentamente.
Quella sera mia madre mise in tavola il piatto col lesso. Quando
tolse il coperchio riconobbi, sotto il vapore, ammonticchiati
nel liquido color ruggine, i resti del mio gallo. Mio padre parlava
di qualcosa con mio fratello, e ridevano e anche mia madre commentava
qualcosa, senza ridere. Mi ricordo che mi prepararono il piatto:
riso, fagioli neri, uovo fritto sopra, patatine, grano, due foglie
di lattuga (che gli fa bene, disse mia madre) e un pezzo del gallo,
un pezzo ragionevole, di carne scura, che in una situazione normale
sarebbe finito nel piatto di mio padre.
Nel ricordo successivo corro verso il bagno, ma vomito nel corridoio,
e comincio a piangere - sembra che volessi scappare. Ricordo chiaramente
la voce di mia madre: "L'avevo detto che questo bambino non
sta bene! L'avevo detto, io!".
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