Il Manifesto / Supplemento Alias
01-novembre-2008

Il Brasile generazionale
(e non 'orientalista') di Tezza

di Sebastiano Triulzi

 

Passato come un fantasma nell’asettica e provinciale industria culturale italiana, praticamente ignorato dall’intera filiera - editori, critica, librai, lettori – semplicemente distratta o, in alcuni casi, troppo dedita ad incensare somari e cocci vuoti, Bambino per sempre (traduzione di Maria Baiocchi, Sperling & Kupfer, pp. 243, € 14,50) di Cristovão Tezza è al contrario uno dei migliori libri pubblicati quest’anno in Italia. Docente di lingua portoghese e di linguistica all’Università del Paraná, teorico della percezione bachtiniana del linguaggio letterario e fedele adepto della visione relativistica della realtà umana tipica del maestro, Tezza è nato nel 1952 e all’età di sei anni si è trasferito a Curitiba, modello oggi di metropoli ecosostenibile: qui, nella città che venne reinventata dal sindaco architetto e urbanista Jaime Lerner, e con qualche escursione dentro e fuori i confini nazionali (Rio de Janeiro, Coimbra e una significativa parentesi in Germania), è ambientato Bambino per sempre, che si svolge negli anni a cavallo tra i settanta e gli ottanta segnati dagli ultimi singulti della dittatura del generale Figueiredo.

Tezza racconta con una onestà non priva di una certa crudezza la propria storia di padre tormentato dalla nascita del primogenito affetto dalla sindrome di Down, e di intellettuale anarchico e disorganico che cerca un approccio alternativo alla quotidianità come alla politica, scontrandosi con quel che la vita costantemente gli contende e gli nega. Insieme spaccato autobiografico e biografia di una intera generazione nata in Brasile dopo la Seconda Guerra Mondiale, che non rinunciò alla contestazione e al miraggio di un mondo diverso pur essendo cresciuta sotto l’infausta sequela di presidenti-generali che hanno affamato e spogliato il paese durante il ventennio di regime militare, il romanzo di Tezza è un ritratto dell’artista brasiliano colto nel momento di passaggio da una stanza all’altra, dalla gioventù quale prodotto di isolamento e controcultura all’ingresso nell’universo falsamente rassicurante e regolare degli adulti, nel quale l’aspetto decisivo concerne tuttavia non l’arrendersi al sistema ma il processo di maturazione del protagonista, la sua capacità di trovare il senso di un esperienza esistenziale fieramente caotica e disordinata, mediante e in prospettiva della scrittura futura.

Mentre il dramma familiare e personale si lega a quello storico, Tezza rielabora il tema dell’intellettuale conscio del suo destino di scrittore, che eleva l’arte al proprio modo di vivere e di esistere, anche se la sua è ancora una figura di autore senza opera. Con l’aggravante che questa marginalità, questa sua ondivaga vaghezza e ingenuità priva però d’ogni rigidità dogmatica che invece pesava sul nostro prototipo sessantottino, si moltiplicano, acuendo il senso di insicurezza, nel momento in cui sente scivolare su di sé la maledizione che Edward Said chiamava orientalismo. E cioè che l’idea che gli occidentali si sono fatti del Brasile, in questo caso, non ha nulla a che vedere con la realtà degli individui che in Brasile vivono; che tutto ciò che ha dato finora forma e corpo alle sue parole, ironicamente, letteralmente, non esiste agli occhi della cultura di cui si è bulimicamente cibato negli anni di formazione – e, paradossalmente, questa visione del Brasile opposta a quella esotica e di cartone presente nel nostro immaginario, può essere anche la ragione dell’oblio del romanzo.

Ma è soprattutto nella crasi tra la consapevolezza che si è ormai infranto il suo sogno rousseauiano di allontanarsi dalla civiltà, di riformulare le proprie regole ricontrattando il vincolo sociale, e il rapporto con il primogenito, la sua presenza di bambino mostro, fardello di cui vergognarsi e infine emblema di speranza e di salvezza, la cui irrazionalità, la cui nebbia neurologica fa comprendere al padre l’intonazione autistica del mondo, «il teatro della civilizzazione» com’egli lo definisce, è appunto in questa contrazione che si addestra pienamente e in profondità lo scrittore in divenire, alla ricerca di una voce che si può raggiungere solo se sbattuti a terra dalla vita reale. L’albero che si riconosce nelle sue radici è un archetipo antico, e la sua rivisitazione nella coppia padre/figlio handicappato, in cui il secondo finisce per migliorare la sensibilità letteraria del primo, è un tratto già felicemente delineato da Kenzaburo Oe, sia in Un’esperienza personale che nel lungo racconto Insegnaci a superare la nostra pazzia, solo che lo scrittore giapponese aveva reso fin da subito, quasi, l’esistenza del figlio con una grave malformazione cerebrale e l’accettazione della sua diversità tra i motivi ricorrenti e fondamentali della sua opera, mentre Tezza ha dovuto far passare vent’anni prima di riuscire a parlarne. E la metafora che utilizzò in un saggio Kenzaburo per spiegare come la sua visione del mondo passasse attraverso «il corpo e lo spirito del figlio idiota», e che chiamava in causa il cielo e il mare dipinti da Magritte all’interno delle «cavità delle forme umane», è in fondo valida anche per Bambino per sempre, pur se introiettata solo alla fine dal protagonista, e comunque finisce per illuminare retrospettivamente tutto il romanzo.

Tezza, scrittore urbano, lontano anni luce dalla visione mistica e rurale di un Coelho, guarda e affonda dentro l’intimità, dentro il vortice della riflessione per riuscire a rappresentare lo sfilacciamento dell’io, le fantasie e proiezioni del pensiero. Come i postmodernisti, fa a pezzi e rimonta l’ingranaggio narrativo, passando continuamente dalla seconda alla terza persona e giustapponendo diversi strati temporali, peraltro secondo i caratteri tipici della lingua portoghese nella sua variante brasiliana, senza tuttavia smontare la responsabilità etica del narratore, come accade spesso ai postmodernisti; offrendo al lettore, come sue cifre stilistiche, un realismo riflessivo che amplifica l’estraniazione e la solitudine del narratore rivolto su sé stesso, e una scrittura dalla funzione memorialistica, che occhieggia qui al saggio, in cui lo spiazzamento e lo slittamento cronologico segnano anche la traslazione del narratore dal piano dell’ideologia a quella più prosaica del tempo quale unica e vera dimensione possibile.